Riflessioni a margine del caso Eluana. LA MORTE TRA RIFLESSIONE TEOLOGICA, ETICA E DIRITTO?

Riflessioni a margine del caso Eluana

LA MORTE TRA RIFLESSIONE TEOLOGICA, ETICA E DIRITTO?

 

Oggi il problema morale riveste un ruolo di grande rilevanza nel dibattito culturale e sociale, specie in riferimento alle questioni di bioetica.  Il caso di Eluana sta facendo discutere molto nel nostro Paese, facendo avanzare ipotesi che arrivano anche a sostenere il bisogno di una legge sull’eutanasia, già esistente in alcuni Paesi europei.
Il punto di partenza della questione può essere circoscritto attorno ad una domanda:  di fronte ad un malato in stato di coma profondo e presumibilmente irreversibile, a bambini anormali, a malati mentali e incurabili, è giusto che si acceleri, mediante la pratica dell’eutanasia, la fine della loro esistenza per eliminare lo stato di sofferenza senza speranza e consentirgli,così, una morte dignitosa?
La domanda presuppone che il termine eutanasia (eu- thanathos) oggi non viene più usato con lo stesso significato di “dolce morte senza sofferenze” che aveva nell’antichità, quanto piuttosto con il significato di una azione della medicina tesa a “procurare la morte per pietà” allo scopo di porre fine al prolungarsi di una
vita infelice. In questa direzione, ad esempio,  si  muoveva  già  il  pensiero  di Nietzsche, il quale si faceva interprete del diritto di determinare ora e modalità della propria morte in caso una vita resa inutile dalla sofferenza estrema.

La riflessione teologica e l’insegnamento della Chiesa
Non c è dubbio che il pensiero morale dell’Antico e del Nuovo Testamento ribadisce un concetto essenziale e fondamentale: l’uomo ha una dignità inalienabile che gli deriva dal fatto di essere stato creato ad immagine e somiglianza di Dio e quindi sottratto alle disposizioni arbitrarie altrui (Gn 1,26; 9,6). La pratica dell’eutanasia appare, poi, in contrasto con l’evento pasquale, il quale dà alla morte non un significato catastrofico bensì di passaggio verso la gloria celeste (Rm 6,23; 1Cor 15,56). Ars vivendi e ars moriendi costituiscono per la fede biblica un tutt’uno, sicché l’idea di una vita insensata oppure indegna di essere vissuta risulta impensabile. Ciò spiega le parole dell’insegnamento della Chiesa lì dove affermano che “è necessario ribadire con tutta fermezza che niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta infatti di una violazione della legge divina, di un’offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità". (Dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede , 5 maggio ‘80).

Considerazioni etiche
A questo punto è estremamente chiaro che secondo la riflessione magisteriale l’eutanasia è moralmente illecita essendo una forma di omicidio, per cui una eventuale legalizzazione porrebbe al cristiano problemi seri di coscienza; una legislazione, infatti, che ha per suo principio essenziale il rispetto della vita umana non dovrebbe consentire questo “diritto alla morte” senza porsi in contraddizione con se stessa, né la professione sanitaria potrebbe pronunciarsi a favore dell’eutanasia, visto che il suo compito primario è quello di aiutare le persone a vivere.
Il ricorso alla pietà, come elemento giustificativo dell’eutanasia, è poco convincente; non solo, ma è anche insufficiente ad intaccare ilprincipio secondo il quale “nessuno è arbitro dell’esistenza altrui”. E se fosse il malato a chiedere l’eutanasia? Neanche in questo caso l’eutanasia apparirebbe una scelta accettabile, perché ci troveremmo di fronte ad un suicidio-omicidio.
Chiaramente  si  comprendono  certe situazioni di dramma in cui il paziente o i parenti vengono a trovarsi quando ormai il malato è condannato al male e lentamente va degenerando in tutto il suo essere, come pure non possono non sottovalutarsi i sentimenti di pena e di pietà che la condizione di un malato può suscitare, tuttavia, ciò nonostante, ricorrere all’eutanasia significherebbe  sopprimere  una  vita umana in modo arbitrario.
Tutt’al più, di fronte ad un malato pietosamente sofferente, giunto ormai allo stato terminale della sua malattia, classificata clinicamente irreversibile, e dove il dolore sia divenuto insopportabile anche con forti sedativi, può risultare accettabile e comprensibile la sospensione di ogni intervento medico, se questo non serve altro che a prolungare lo stato di sofferenza e di lenta degenerazione, ma mai il gesto estintivo della vita qual è appunto l’eutanasia.
Una eventuale legalizzazione dell’eutanasia significherebbe, dunque, potenziare quella cultura di morte che spesso sembra prevalere nella nostra società. 
Ma, concludendo, sorge una domanda: Se uno non è credente, perché dovrebbe accettare una visione sacrale della vita? La questione non è da porre, come superficialmente alcuni fanno, in termini di imposizione della visione sacrale della vita a chi non è credente, quanto invece di capire, mediante la ragione, se la vita è portatrice di un valore aggiunto che in se stessa non avrebbe. Ed io credo che sia proprio la ragione a dire a credenti e non che la vita non è intanto la semplice descrizione scientifica, in particolare biologica, di una entità con i suoi processi metabolici e chimici, né è sufficiente poter pensare che sia il sentimento o l’emozione a darle valore; la vita, nelle sue fasi triste e liete, gioiose e dolorose, è “l’esistenza che si fa cammino”, è “l’esistenza che risponde ad un progetto”, e tutto questo presuppone un  Altro, un Qualcuno che le ha dato e le dà valore; se così non fosse, non si capirebbe la nascita, il bisogno di amare, di essere felici e di realizzarsi, il perché del dolore, della sofferenza e della morte stessa.

Domenico Pisana

Snadir - Professione i.r. - vernerdì 12 dicembre 2008

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